lunedì 21 aprile 2008

ultimi atti | sociologia della performance

«La colpa e la miseria si sottraggono, per naturale istinto, agli occhi del pubblico, amano l'isolamento e la solitudine, e, persino nella scelta di una tomba, s'appartano talvolta dalla generale popolazione del cimitero, quasi rinunciando alla solidarietà della grande famiglia umana, e desiderose (secondo la patetica espressione di Wordsworth) di "umilmente esprimere | una solitudine penitente".
Ed è bene, nel complesso e nell'interesse di noi tutti, che sia così...»

(Thomas De Quincey, Le confessioni di un mangiatore d'oppio, 1856)

Ci sono premure che non vengono chieste, e sono quindi da considerarsi violenze, e attenzioni che non si desiderano, siano esse positive o meno. Se poi capita che siano attenzioni di natura spregiativa, negative nel loro compiersi, spesso queste passano il segno e divengono incontrollabili, e chi ne è l'autore e l'attore, si lascia conquistare dalla parte a tal punto da intraprendere azioni che hanno senso solo se pensate all'interno di un frame drammatico, o meglio psicosociodrammatico. Non ho mai visto il tutto da questo orizzonte teorico che va sotto il nome di "paradigma della performance" (vedi un lavoro a riguardo), che sta prendendo piede.
Tutto sembra essere una sapiente recita, sotto forma di rituale, resta da capire se io sia nella fase liminale, che presuppone un ritorno, seppur sotto forma diversa, alla tribù da cui sono stato estromesso, o se sia il caso di teorizzare un quarto tipo di passaggio, quello definitivo verso l'esterno.
Non più riti di iniziazione. ma riti di marginalizzazione, di esclusione. È da considerare che anche l'esclusione sia regolata da rituali.
Niente di nuovo, nemmeno il dolore.


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