giovedì 20 marzo 2008

la verità

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e ormai era certo, assodato: era diventato un essere infelice. Ogni suo discorso ruotava intorno all'amarezza, se ne rendeva conto; ogni suo sorriso era strappato di forza ad un'espressione persa nel vuoto, se ne rendeva conto. Era stata come un'illuminazione, un ex abrupto del pensiero, inferto da chissà quale mente superiore alla tranquillità di una giornata come le altre, in cui combatteva le stesse lotte che da un mese a quella parte lo impegnavano nelle parole a vuoto e nei magoni improvvisi. Ma le lacrime non scendevano più, rimanevano raggrumate sotto le palpebre stanche e sull'orlo delle occhiaie, non valevano il tempo che avrebbero bagnato. Ormai era un infelice, arrivato alla soglia del non ritorno, se non addirittura già dall'altra parte, dove la certezza delle ferite diventa cicatrice, come un battesimo oscuro. Pensava, o si convinceva, che a quel punto la cattiveria di cui continuava ad essere oggetto non avrebbe permesso altre parole, altri perdoni. Stavolta non ci sarebbe potuto essere perdono alcuno, e d'altra parte come sarebbe stato possibile sorvolare, o anche solo ripartire? Con quali nuovi compromessi? Ne sarebbe valsa la pena? I loro erano giochi così sottili da penetrare non solo nella carne, ma nelle ossa, da diventare crepe per gli spifferi freddi della memoria. Non c'erano nuove partenze possibili, già sapeva che ogni qual volta avesse pensato a questo periodo, a questo calvario, avrebbe stretto i pugni dalla rabbia. Non conosceva più i volti, né le voci. Era infelice, cosa poteva fare ora? Forse, avrebbe dovuto
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