venerdì 6 giugno 2008

farne una malattia

Cos'era quella sensazione? Essere tornato, per cambiare, e non trovare nessuno con cui condividere il momento. Cos'era quella sensazione? Chiudersi nel suo mondo di legno alpino e aspettare, aspettare. Cos'era quella sensazione? Adottare un passo guardingo e timoroso per spostarsi dal punto A al punto B di un piccolissimo mondo. Cos'era quella sensazione? Un peso nel petto, a respirare aria, a sentire l'afa di una stagione impazzita, ieri pioveva oggi c'è sole e nuvole basse. Cos'era quella sensazione?
Ammalarsi di solitudine, si può. Sentirsi soli, al punto di non riuscire a fuggire a quella sensazione. Senza sapere di che sensazione si tratti, senza coglierla. Almeno si potesse definire, sarebbe più semplice trovare la cura.
La cura. Forse nell'attesa, come in una lunga convalescenza, nell'attesa di qualcuno, di un segnale. Dov'erano finiti tutti? Dove sono finiti tutti?
Ammalarsi di solitudine non è cercare la solitudine, ma non riuscire più a vederla come una risorsa, come una conquista, ma solo come un ostacolo.
Calare una pesante tenda nera sulla finestra, e voler solo dormire. Stare stretto nei propri abiti, nella propria pelle. Non contattare, avere timore di disturbare, scomparire. Egoisticamente aspettare che gli altri si facciano vivi, nel frattempo maledire le loro esistenze. Pentirsi del proprio egoismo e colpevolizzarsi, sentirsi vittime delle proprie inettitudini. Inattitudini. Incongruenze. Guardare lo schermo di un cellulare, per capire se quel messaggio arriva, o se ne vuoi mandare. Non voler mandare alcun messaggio, arrabbiarsi dietro a "Tanto, mica mi risponderà".
Ammalarsi di solitudine, restare in una condizione non desiderata. Fare della solitudine una malattia, da evitare. La solitudine come un tumore.
Cos'era quella sensazione? E quale la cura?

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