martedì 6 maggio 2008

come dire che in Leibniz percepisce Proust e lo fa suo

«Non c'è posto come casa» diceva la bambina del Mago di Oz. In questo periodo ho avuto modo di riflettere molto sul concetto di casa. È qualcosa di sfuggente, o meglio, di volubile, come l'umore, perché la casa è un sentimento, un umore appunto, uno stato d'animo. Le mura ne sono la forma, il confine soltanto, per quanto ogni spazio per avere un senso attribuito necessiti di una delimitazione di significati e territori: la casa è un territorio significante, forse. C'è che la definisce quel luogo «dove, quando ci andate, vi accolgono sempre» (David Frost), o «dove vai quando non hai altro posto dove andare» (Bette Davis); in ogni caso è un luogo in cui aleggia un'atmosfera carica di ατμός, un qualche vapore, sentimenti condensati in una fitta nebbia di parole e sguardi. E un territorio significante, ossia uno spazio vissuto come luogo. Ma «Nulla è più triste che il trovarsi in una casa dove le persone e le cose che dovrebbero essere le più intime ci sono quasi sconosciute» (Carlo Maria Franzero). È per colpa di queste riflessioni che ci si sente facilmente un apolide, o un homeless, o qualsiasi altra figura che si caratterizzi per un nomadismo imposto dai sentimenti.
La (mia) casa è nelle persone, quindi ovunque ci siano persone che mi fanno sentire a casa. Lapalissiano? Presto anche sul mio nome verrà inscritto:

«Ahimè, La Palice è morto, è morto davanti a Pavia; ahimè, se non fosse morto sarebbe ancora in vita.»